L’elefante nella rete, lo scandalo Cambridge Analytica, Global Search Research e Facebook. Parte quarta – I dati

L’elefante nella rete, lo scandalo Cambridge Analytica, Global Search Research e Facebook. Parte quarta – I dati

Il 10 aprile 2018 Marc Zuckerberg si presenta al Senato americano senza il solito outfit e molto meno abbronzato rispetto alla sua foto in Facebook. Alcuni giorni prima aveva rotto il silenzio sullo scandalo ben conscio che stavolta non sarebbe bastato il solito mea culpa e l’accenno alla giovinezza e alle sfide inedite che la sua creatura affronta dal 4 febbraio 2004.

L’anello che collega Facebook allo scandalo è una app chiamata THIS IS YOUR DIGITAL LIFE creata dal ricercatore Aleksandr Kogan. Presentata come progetto di ricerca, l’applicazione pagava quattro dollari in cambio della compilazione di quiz psicologici, simili a tanti che girano ogni giorno sui vari social network. Una app come tante sul fronte digitale, con anche un piccolo benefit.

Da quando nel 2013 Michal Kosinski ha dimostrato come Facebook possa essere utilizzato in modo efficace per indagini psicometriche, la raccolta e lo sfruttamento delle nostre briciole digitali ha subito una impennata. Lo stesso scienziato ha successivamente mostrato come la profilazione attraverso questi dati possano aumentare in modo significativo l’efficacia dei messaggi pubblicitari (e non solo).

Seppure Kosinski e l’università di Cambridge abbiano sempre rifiutato di fornire i propri dati a terzi, in poco tempo sono apparsi altri protagonisti sulla scena. Nel 2016, Alexander Nix sale sul palco del Concordia Summit e descrive l’uso dei Big Data e della psicografia nell’ambito dei messaggi politici e come è cambiato il modo di fare pubblicità fornendo esempi tratti dal lavoro svolto per la campagna di Ted Cruz.

Nessuno si scandalizza, nessuno denuncia violazioni della data privacy, nessuno dei giganti del web si lamenta o invoca violazioni dei termini di servizio.

Trump vince le elezioni mentre Cambridge Analytica viene premiata dalla principale associazione di pubblicitari per l’approccio innovativo introdotto nel marketing politico.

Nel frattempo, fin dall’esito della Brexit, la giornalista Carole Cadwalladr del Guardian investiga l’impatto delle nuove tecnologie sugli eventi politici. Non è l’unica. La sua indagine viene ostacolata da più versanti ma effettuata il salto definitivo grazie alle rivelazioni di Christopher Wylie.

Tra le varie informazioni fornite, Wylie segnala come i dati siano giunti (anche) dalla Global Search Research di Alexsandr Kogan e che non erano di soli duecentosettantamila utenti. I giornalisti calcolano almeno cinquanta milioni di profili. Facebook, con colpevole ritardo, stimerà che i dati potrebbero aver riguardato ottantasette milioni di persone.

Come si è potuto raccogliere una tale quantità di profili? Sfruttando una finestra lasciata aperta dal social network: per poter offrire un’esperienza migliore all’utente era possibile accedere anche ai suoi amici, alle loro preferenze, ai loro dati.

In parallelo, gli americani che vogliono capire come faccia Cambridge Analytica a conoscerli così bene ricevono solo rifiuti dalla società e dalle autorità alle numerose richieste di maggiori dettagli sulle sorgenti di informazioni utilizzate. Un vero muro di gomma… fino a quando non scoprono un tallone d’Achille nel nuovo gigante del marketing politico: parte dei dati sono stati elaborati nel Regno Unito, per cui si applica (anche) la data privacy europea, molto più rigorosa di quella americana.

A fronte dei continui rifiuti, David Caroll denuncia alle autorità britanniche la Cambridge Analytica. I procuratori americani, a fronte delle evidenze presentate, aprono un filone d’indagine ulteriore rispetto al Russiagate e relativo all’uso di personale straniero durante le elezioni.

(clicca per ingrandire)

E Facebook che dice nel frattempo? Di base, un silenzio assordante e il blocco degli account della Cambridge Analytica, di Aleksandr Kogan e… di Christopher Wylie.

L’unica voce ufficiale, per quasi un mese, è stata solo quella del capo legale di Menlo Park, che afferma come quanto successo non sia un data breach, ma “solo” una violazione dei termini di servizio in quanto Kogan non era autorizzato a rivendere i dati. Nessun commento dal capo della sicurezza, dalla guida operativa né dal fondatore del social network.

Fino al 10 aprile 2018…

Pochi giorni prima, Facebook aveva sospeso altre due società che vivono di raccolta dati.

Il 2 maggio, con il brand distrutto dal clamore della vicenda, Cambridge Analytica e SCL Elections dichiarano bancarotta.

La serie completa:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.