L’elefante nella rete, lo scandalo Cambridge Analytica, Global Search Research e Facebook. Parte quinta – Voi non siete mai soli, non siete mai annoiati…

L’elefante nella rete, lo scandalo Cambridge Analytica, Global Search Research e Facebook. Parte quinta – Voi non siete mai soli, non siete mai annoiati…

«Sarà molto difficile per le persone vedere o consumare qualcosa che non sia stato in qualche modo fatto su misura per loro. Non abbiamo bisogno che voi scriviate qualcosa. Sappiamo dove siete. Sappiamo dove siete stati. Possiamo più o meno sapere a cosa state pensando. Di fatto credo che molte persone non vogliono che Google risponda alle loro domande. Vogliono che Google dica loro cosa devono fare dopo. Sappiamo tutto ciò che state facendo e il governo può seguirvi. […]. Voi non siete mai soli, non siete mai annoiati…»

Eric Schmidt, Google, intervistato dal Wall Street Journal nel 2010.

Nelle puntate precedenti ho provato a dipanare il gomitolo della vicenda, tra particolarità dei singoli stati e promesse del marketing moderno. Rimane sul tavolo la paura iniziale: può un algoritmo manipolare una elezione?

Anche chi studia questi temi, come David Carrol, rimane confuso quando vede come è stato ritratto nel profilo fornitogli da Cambridge Analytica: poco favorevole sul diritto a portare un’arma (3 su 10), interessato alla sicurezza nazionale (7 su 10) e poco propenso a votare repubblicano. Questa rappresentazione lo farà rientrare o meno nel target di una determinata iniziativa (pubblicità su facebook o altro social, posta, contatti nel mondo reale…). Con lui non punteranno sull’immagine del presidente pro-armi, piuttosto veicoleranno posizioni favorevoli a una maggiore sicurezza nazionale, oppure punteranno a messaggi pro-astensione, in modo da togliere un voto al partito avversario.

Le domande che ci facciamo in questi casi coprono varie aree:

  • quali informazioni sono state utilizzate per la profilazione?
  • Sono informazioni pubbliche o private?
  • Ho dato il consenso a quel particolare uso?
  • Come è stato creato il mio ritratto?
  • Quanto è affidabile il profilo che emerge da tali informazioni?

Facciamoci aiutare dal report Corporate Surveillance in Everyday Life – How Companies Collect, Combine, Analyze, Trade, and Use Personal Data on Billions, di Wolfie Christl e Cracked Labs, pubblicato nel 2017.

Nella figura seguente vediamo come la raccolta dei nostri dati non sia iniziata con l’avvento dei social e, in generale, con Internet. A partire dagli anni 90, con le campagne fedeltà, le promozioni personalizzate e le tecniche di verifica del credito sempre più integrate, siamo diventati sempre di più rappresentati dalle nostre informazioni. Con l’apertura al marketing del web, avvenuta a metà degli anni 90, i nostri profili si sono arricchiti dei dati che volontariamente o meno lasciamo in rete, dai social a quanto i dispositivi IoT raccolgono nel loro funzionamento.

Per incrociare i dati, le aziende necessitano “solo” di una chiave di riconoscimento. Nome, cognome, indirizzo, numero di telefono, data di nascita sono scelte classiche. A queste si sono aggiunti gli account Facebook o Google con cui è possibile autenticarsi presso altri siti, e una varietà di tecniche che consentono di riconoscerci a partire dal nostro dispositivo, posti visitati, indirizzi IP, app installate…

Grazie a questi identificativi (tra cui ci sono i famosi Cookie), è possibile tracciare i nostri spostamenti, misurare il nostro interesse, proporci l’informazione ritenuta più adeguata al nostro profilo.

Ecco che il nostro ritratto digitale diventa il metro sul quale veniamo valutati e sul quale viene modellato il messaggio a noi destinato. Siamo passati dai canali televisivi per target di audience (ad esempio, si pensi alla nascita di Rete4, Canale5 e Italia1) al messaggio personalizzato e molto spesso privato su base “quasi” individuale. Questo avviene in vari ambiti. Nel report di Cracked Labs vengono citati vari casi.

  • A Singapore, un’azienda calcola l’affidabilità delle persone per i prestiti basandosi sull’uso del telefonino, delle applicazioni adoperate, delle transazioni con le società di telecomunicazioni e i dati immessi nel Web e nei social network, compreso il modo in cui vengono immessi i dati nei moduli online. Ad esempio, uno scaricamento eccessivo e reiterato della batteria potrebbe inficiare la concessione del prestito.
  • Alcune compagnie assicurative, invece, fanno previsioni sulla salute individuale per malattie come diabete, cancro e depressione usando dati di marketing comprati dai data broker.
  • A Las Vegas i casinò applicano la predictive analytics per prevedere il momento in cui un giocatore sta perdendo così tanto da decidere di andarsene e intervenire con offerte di buoni pasto gratuiti per convincerlo a restare.

Al mercato dei dati cercano di partecipare tutti: dai social network ai broker pubblicitari, dalle media company agli operatori telefonici, dalle catene alberghiere o della distribuzione, alle compagnie aeree e ferroviarie.

Ad esempio, durante l’ultima campagna elettorale tedesca, la Cdu di Angela Merkel e i liberali della Fdp hanno pagato Deutsche Post per poter utilizzare i dati dei suoi clienti a fini elettorali. Gli attori coinvolti hanno spiegato che il fatto è avvenuto nel rispetto delle leggi tedesche sulla privacy e che i dati erano completamente anonimizzati. Tuttavia, combinandoli, era possibile formulare, per ogni abitazione con almeno sei famiglie, delle previsioni sull’affinità a un partito. I clienti di Deutsche Post per evitare che i propri dati venissero ceduti, avrebbero dovuto opporsi per iscritto (opt-out, nella tradizionale forma americana).

I nostri dati viaggiano e vengono scambiati, venduti senza che lo sappiamo. Nel digitale, la copia costa pochissimo e dura un attimo. Pensate a quante Monna Lisa esisterebbero se l’originale fosse un’opera fatta di bit.

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Photo by Rob Dumas

Tornando alla domanda iniziale, davvero queste procedure possono stravolgere l’esito di un’elezione?

Di sicuro, una politica vissuta come “vendita di un prodotto” applica le stesse tecniche del marketing commerciale. Gli studi di Michal Kosinski hanno dimostrato come la profilazione aumenti l’efficacia del messaggio (40% in più di clic e 50% in più di acquisti effettuati!).

Al momento, però, non esistono studi che confermano che tali approcci mantengano la medesima efficacia quando applicati all’ambito politico. Rispetto a un prodotto commerciale, è molto più complesso vendere un oggetto politico (insieme di svariati temi, a volte in netto contrasto tra di loro, all’interno di un periodo elettorale parecchio esteso). Le elezioni restano un fatto multiforme. Al contrario, applicare queste metodologie per un emendamento, per alzare i toni durante per un passaggio cruciale, per fare pressione su un particolare politico, sembrano situazioni nelle quali non esista una sostanziale differenza rispetto all’ambito commerciale. Dal report “After 2016, can consumer advertisers learn anything from political campaigns?”, a cura della National Media Research, Planning and Placement LLC:

  • c’è un approccio diverso alle reazioni negative. Un politico se le aspetta, un brand le evita come la peste;
  • un brand sarà difficilmente sorpreso da una fuga di notizie (si pensi agli annunci Apple) mentre una campagna politica soffrirà continuamente di una mancanza di controllo delle sorgenti informative;
  • per un brand, il “negozio” sarà aperto anche domani, per un politico no;
  • per misurare l’efficacia del messaggio, il brand ha giornalmente le quantità vendute e ulteriori dati a supporto. Il politico ha solo il responso dell’urna elettorale;
  • il brand può fare profitti notevoli anche se non è la realtà predominante nella sua area. Il politico deve essere il numero uno;
  • le campagne di marketing comuni durano a lungo e sono strutturate con personale estremamente esperto e variegato, ben agganciato alla struttura aziendale;
  • i costi del marketing commerciale sono stabili e modulabili con estrema facilità anche su periodi lunghi. Le campagne politiche, al contrario, non hanno certezza dei capitali a disposizione, dei costi pubblicitari e pianificano di settimana in settimana. Inoltre, tutte le campagne di marketing politico devono essere pubbliche, non esistendo la confidenzialità;
  • Infine, il logo del brand non scrive di sua iniziativa su Twitter!
Vote by Theresa Thompson on Flickr

Però è chiaro che votiamo di pancia, senza dover per forza entrare negli studi del premio Nobel David Kahneman. Noi italiani lo sappiamo benissimo. E su questo verte ormai l’intero messaggio della politica attuale, tra cori da stadio, squadrismo e nessuna capacità di dialogo. Ecco che il marketing politico, nelle ultime decadi, ha impostato le proprie azioni identificando, creando e mantenendo delle “bolle di elettori”, uniti tra loro da un particolare elemento che li rende gruppo. In Italia abbiamo ancora presente gli acquisti del Milan a ridosso delle elezioni, oppure la discussione sui vaccini, Stamina o scie chimiche.

Non a caso, sono ormai divenuti degli esempi classici i quadranti che catalogano le preferenze elettorali rispetto a marche di birra o sport prodotti dalla National Media Research, Planning and Placement LLC.

In questo caso, però, prima di agitarci al riguardo, è meglio ricordare che siamo dei pessimi matematici naturali. Anche se la statistica indica il Cognac come una bevanda pro-democratici, ci saranno sicuramente elettori di Trump che gradiscono quel tipo di alcolico. Inoltre, i gusti evolvono nel tempo, a volte in modo molto repentino.

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Durante la campagna contro le Fake News (un argomento che di per sé meriterebbe un’altra serie di articoli), Craig Silverman di Buzzfeed intervistò il sindaco di Veles, la cittadina macedone ritenuta una delle fabbriche più prolifiche di bufale. Alla domanda: «Ci sono molte persone in America che credono che i vostri teenager abbiano creato enormi problemi e danneggiato la democrazia.», il sindaco replicò con una sacrosanta verità: «Se un gruppo di ragazzini macedoni può danneggiare la democrazia americana il problema è vostro, non della Macedonia.».

Quindi, cos’è per noi la Democrazia? Se sappiamo definirla, possiamo anche pensare a come difenderla e farla prosperare.

Vi ricordate il polverone sollevato dal dott. Burioni con la frase: «La scienza non è democratica?»

Se riteniamo che sia la volontà della maggioranza, allora non potremo sfuggire alla commercializzazione della politica. Negli Stati Uniti, si valuta che il 4% degli elettori credano fermamente a una delle varie teorie complottistiche. Un bacino elettorale maggiore dello scarto di voti necessario per essere eletti presidente.

Se invece riteniamo che sia spazio di confronto, critica e costruzione (anche molto faticosa) di un percorso comune, allora avremo già fatto il primo passo per risolvere i problemi sollevati da questo o da altri scandali.

Nota: con questo post si chiude la mia *personale* analisi di quanto accaduto. Spero abbiate gradito lo sforzo. Lungi da me il pensiero di aver capito tutto. Vi chiedo quindi di segnalarmi dubbi, incoerenze o quant’altro utile a un confronto costruttivo.


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