S come smart working

S come smart working

Ossia come smart working, telelavoro e lavoro a domicilio non sono la stessa cosa nemmeno in tempi di pandemia.

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Photo by susanjanegolding

I grandi cambiamenti sono favoriti in situazioni come quelle che stiamo vivendo, come se l’eccezionalità facesse da volano a movimenti già in atto ma a cui mancava la scintilla, lo scatto per emergere. La pandemia ha sicuramente gettato il mondo che conoscevamo in una situazione mai sperimentata da parte delle generazioni attuali. Lo scenario che stiamo vivendo lo si ritrova nelle speculazioni letterarie, nelle cronache del passato o in mondi futuri. Ma anche quando qualcosa di simile è accaduto, l’esistenza della rete cambia le carte in tavola facendoci apparire superati (ma davvero?) i rimedi adottati dai nostri antenati per dare continuità alle loro vite.

Lezione di fisica, Università del Montana, 1919. Durante l’epidemia di influenza, le lezioni si tenevano all’aperto (National Archives)

Nei giorni della crescita del contagio e dell’attivazione delle misure di distanziamento sociale non è passato un momento senza che la parola smart working facesse capolino nelle discussioni. Titoli come “Coronavirus: smart working obbligatorio nelle PA” catturavano l’attenzione e avevano quel fascino straniero che fa sembrare tutto migliore. Qualche giornale prestigioso (!) si è pure lanciato in un’analisi dello smart working nell’industria del sesso. Che si deve fare per aumentare la tiratura

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Nessuno si stupirà scoprendo che siamo gli unici a usare tale termine.

Gli anglofoni usano la sigla WFH (working from home), remote working, al limite telecommuting. Le altre nazioni hanno meno passione per gli anglicismi e li usano solo se non esiste una parola equivalente nella loro lingua madre.

In Italia abbiamo un termine per indicare quanto è stato reso obbligatorio per molti lavoratori dipendenti. Si chiama telelavoro, un termine riportato nella legislazione che richiede al riguardo un esplicito accordo sindacale.

In questo caso, il lavoratore dipendente continua a prestare la sua opera in base a un orario di lavoro. L’unica differenza rispetto al lavorio in ufficio è il dove. Rimangono in carico al datore di lavoro tutti gli obblighi (e le verifiche) come se il lavoro venisse svolto presso la sua sede. Di solito, in queste situazioni, è previsto un rimborso al lavoratore per le spese non sostenute direttamente dal datore di lavoro (riscaldamento, energia elettrica, postazione di lavoro…) che deve indicare in modo preciso la sede di lavoro remoto.

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Photo by Drew Dies

Per limitare alcuni di questi oneri, alcuni adottano locazioni condivise. In questo caso si è diffuso il termine coworking, anche se la sua adozione è indirizzata principalmente a liberi professionisti piuttosto che ai lavoratori dipendenti, con i primi che beneficiano della dimensione sociale tipica dell’ufficio mentre i secondi, se non opportunamente indirizzati, rischiano di esporre dati e informazioni riservate.

Ulteriore confusione nasce dall’introduzione del termine lavoro agile nella legge 22 maggio 2017 n. 81, “Misure per la tutela del lavoro autonomo non imprenditoriale e misure volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”, che sullo stesso sito del Governo viene tradotto in smart working.

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OK, qualcosa non torna. Se il decreto non parla di smart working e nel testo si parla solo di lavoro agile perché usare altre terminologie? Solo questione di moda? Evitiamo, per favore!

Quindi prendiamo in prestito la definizione dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano.

Per Smart Working intendiamo: “Una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati”.

Rispetto al telelavoro (dove), si aggiunge la dimensione del quando (che da sola indicherebbe solamente un lavoro flessibile) e, soprattutto, il come, ossia gli strumenti. È solo dalla sinergia di questi tre aspetti che emerge lo smart working, come una completa ridefinizione del concetto di lavoro dipendente nel quale il prestatore d’opera non è misurato (solo) con un cartellino orologio ma (anche) in base al raggiungimento di obiettivi potendo sviluppare e completare in autonomia grandi o piccole attività.

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Capite che un operaio che lavora presso una catena di montaggio fisica non potrà lavorare in smart working e che l’evoluzione di tale modello di lavoro, volenti o nolenti, sarà una completa automazione abilitata dalla robotica e dalla intelligenza artificiale, un mix in grado di massimizzare l’efficacia e i costi rispettando i vincoli del dove (in fabbrica) e del quando (un pezzo per volta, un componente per volta…).

Se i processi lavorativi sono (purtroppo o per necessità) repliche della catena di montaggio, non è possibile l’adozione dello smart working neppure se il lavoro svolto è di tipo impiegatizio o intellettuale (per non dire educativo o politico). Dove invece è possibile rivedere dalle basi i processi industriali, ecco che si possono adottare approcci diversi per rendere il lavoro smart se non, addirittura, agile (da pronunciare all’inglese per evitare fraintendimenti di cui parleremo magari in un apposito articolo).

Il punto nodale dello smart working (e oltre, verso le sue infinite evoluzioni) risiede nella fiducia che deve esistere tra datore di lavoro e dipendente. È un bilanciamento complesso, che richiede affinamento e tempo per arrivare a un livello di efficacia.

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Da un lato, il datore di lavoro deve essere conscio e gestire in modo adeguato il carico assegnato perché non può affidarsi (solo) alla pila di documenti sulla scrivania, alla coda delle persone in attesa fuori dall’ufficio, al componente montato correttamente sul telaio. Il rischio è di rimanere ciechi, sovraccaricando il lavoratore oppure lasciandolo appeso in attesa di istruzioni e compiti.

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Da parte del dipendente, invece, il rischio è di finire in un vortice di richieste continue, senza veder riconosciuti straordinari né periodi di riposo adeguati (obbligatorio per 11 ore consecutive ogni 24), oppure nel rimanere isolato e quindi più debole e fragile rispetto alla pressione manageriale in una versione del mobbing subito da tanti piccoli lavoratori autonomi che cercano di bilanciare in vari modi la mancanza dei tre diritti fondamentali del dipendente: sicurezza, disconnessione e formazione.

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Photo by GoonSquadSarah

Non è un caso che nel DPCM del primo Marzo 2020 si sia derogato agli accordi individuali previsti [per favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato].

È un’emergenza e ci sta, a parte che duri per il periodo strettamente necessario, non sia abusata e non diventi la norma.

Quindi, appena le bocce saranno ferme, sarà importante ripartire con una analisi attenta, evitando di confondere fischi con fiaschi.

Postilla: in modo similare qualcuno ha iniziato a parlare di smart learning, confondendo la scuola a distanza (dove si è sostituita l’aula con strumenti di video conferenza) con un’idea (ancora utopica?) di didattica del terzo millennio. Potete rileggere l’articolo applicandolo al mondo della scuola, sia per gli studenti sia per il personale docente e amministrativo. [spoiler: non cambia nulla]

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