Persone: Ken Jennings, mandato in pensione dall’intelligenza artificiale

Persone: Ken Jennings, mandato in pensione dall’intelligenza artificiale

Ken Jennings è un enciclopedico. Avete presente quei tizi che sanno tutto di tutto, una sorta di gigantesche enciclopedie ambulanti? Ken è stato per nove anni consecutivi il campione indiscusso di Jeopardy!, il più famoso quiz a premi americano, gioco in cui è fondamentale decifrare gli indizi per fornire la risposta corretta. Le sue conoscenze gli hanno portato lavoro, soldi e fama.

Poi è arrivato Watson, un’intelligenza artificiale sviluppata dall’IBM, e di colpo Ken è diventato obsoleto.

La sua chiacchierata al TEDxSeattleU rivela una persona che merita di essere conosciuta, un personaggio pubblico che rivendica a pieno titolo la particolarità dell’essere umano e non si trincera dietro facili scuse come al contrario fece Kasparov quando venne sconfitto da Deep Blue.

Per il lato nerd che è in ognuno di noi, è rinfrescante sentirgli dire:

Si prova una strana sensazione di supremazia quando si possiedono nozioni ignote ai genitori. Tu sai cose dei Beatles che papà non sa. E pensi: «Ehi, sapere è davvero potere… l’informazione giusta tirata fuori al momento giusto».

Poi però, quando elenca i motivi per cui ha accettato la sfida lanciata dall’IBM con il progetto Watson, inizia a mostrare un altro lato di sé, più umano, forse un filo arrogante ma, soprattutto, curioso:

Dissi di sì, per molte ragioni.

Primo, perché giocare a Jeopardy! è fantastico. È la cosa più divertente che si possa fare tenendo addosso i pantaloni.

Poi, perché sono un fanatico del computer e questa sfida mi sembrava il futuro.

Infine, perché ero abbastanza sicuro di vincere. Mi ero interessato un po’ all’intelligenza artificiale: sapevo che non c’erano macchine in grado di fare quello che serve per vincere a Jeopardy!.

Così pensai: «Beh, sarà un gioco da ragazzi. Sconfiggerò il computer, e difenderò la mia specie».

E invece la sfida è stata dominata da Watson.

Il supercomputer Watson vince un quiz in tv da un milione di dollari

IBM Watson wins Jeopardy!

Ken non si tira indietro e ci racconta l’impatto con la cruda realtà:

Ricordo che stavo in piedi dietro al podio quando ho sentito quel piccolo pollice da insetto che premeva il pulsante. Tic tic tic tic…

Mi sono sentito obsoleto. Mi sono sentito come un operaio di Detroit degli anni ’80 che vede un robot in catena di montaggio fare il suo lavoro.

Era la sola cosa in cui eccellevo, e all’IBM era bastato investire decine di migliaia di dollari, il suo personale migliore, migliaia di processori che funzionavano insieme per riuscire a rifarla, e meglio di me!

Cosa fare? Arrendersi e delegare alle macchine? Un’opzione che ci cambia, anche fisicamente:

Abbiamo le prove del fatto che l’ippocampo, la parte del nostro cervello che si occupa della memoria spaziale, si restringe e atrofizza nei soggetti che usano strumenti come il GPS, perché non viene più esercitato il senso dell’orientamento. Ci limitiamo a seguire una voce sul pannello di controllo. E così la parte del cervello preposta all’orientamento diventa più piccola e ottusa.

Eppure, proprio la sconfitta fa riflettere Jennings sulle sue capacità, sulla loro importanza e sull’uso della conoscenza da parte dell’essere umano.

Arrivai alla conclusione che quelli come noi, quelli che non dicono subito: «Oh, sì. Posso cercarlo su Google. Dammi un secondo», avevano due vantaggi.

E qui il discorso mi ha catturato del tutto, anche perché tante persone ormai si rifiutano di imparare qualcosa di nuovo rifugiandosi dietro un «Intanto lo posso chiedere a Siri».

C’è un vantaggio in volume e c’è un vantaggio di tempo.

Volume e tempo, due grandezze che vedono in netta superiorità la macchina, non l’uomo. Eppure, Jennings parte proprio dal tema più ostico per spiegarci le ragioni per cui non dobbiamo abdicare alle intelligenze artificiali:

Dicono che la somma totale delle informazioni umane raddoppi ogni diciotto mesi circa. Ora, ciò è terrificante, perché molte delle grandi decisioni che prendiamo richiedono la padronanza di tanti diversi tipi d’informazioni. Decisioni quali il genere di scuola da frequentare, la disciplina in cui diplomarsi, il partito cui dare il proprio voto, il lavoro verso cui indirizzare i propri sforzi.

Una volta acquisite tutte queste informazioni, siamo in grado di prendere decisioni ponderate. Se invece dobbiamo ricercarle tutte, rischiamo di trovarci nei guai. A un certo punto finiremo per dire: «Troppa roba da imparare, lasciamo perdere», e la scelta finale sarà meno informata.

Jennings non sostiene che l’uomo sia più efficace delle macchine, o che queste ultime non siano in grado di macinare informazioni in tempi assai più rapidi. Quello che ci ricorda, invece, è che siamo esseri umani, esseri liberi, esseri che ci tengono a poter scegliere, ma che per poterlo fare devono essere informati nella maniera migliore e completa.

A questo punto, Ken affronta il tema del tempo e affonda il colpo citando Tilly Smith. Ve la ricordate?

Tilly, bimba esperta di tsunami. Così ho salvato cento turisti

I guardaspiaggia fecero evacuare più di cento persone perché questa bambina si era ricordata di un’informazione che le aveva dato il suo insegnante di geografia un mese prima. Adoro questo aneddoto perché dimostra il potere di un’informazione, una sola nozione ricordata esattamente nel momento giusto e nel posto giusto, una cosa più facile da notare in un quiz che nella vita di tutti i giorni. Ma in quel caso successe davvero. Nella vita reale succede, in continuazione.

La parte finale dell’intervento di Jennings suggerisce un orientamento ben preciso:

Non sono sicuro di voler vivere in un mondo dove il sapere è obsoleto.

Non voglio vivere in un mondo dove l’alfabetismo culturale è stato sostituito da queste piccole bolle di specializzazione, così che alla fine nessuno di noi sa nulla delle associazioni mentali collettive che da sempre sono il collante della nostra cultura. Credo che la nostra civiltà funzioni se è frutto di una vasta eredità culturale culturale che condividiamo e conosciamo senza bisogno di ricorrere ai nostri dispositivi, motori di ricerca e smartphone.

Tutti possiamo fare questa scelta.

La facciamo quando siamo persone curiose, che amano esplorare e conoscere, e che non credono che lo studio sia circoscritto alle ore di scuola. Ogni giorno dovremmo sforzarci di imparare qualcosa di nuovo. Dovremmo avere questa inesauribile curiosità per il mondo che ci circonda.

Possiamo vivere in un mondo in cui i nostri cervelli, le cose che sappiamo, continuano a essere ciò che ci rende speciali, oppure in un mondo in cui abbiamo delegato tutto a dei malvagi supercomputer venuti dal futuro come Watson.

Signore e signori, la scelta è vostra.

Che aggiungere? Personalmente, solo un grazie per avere condiviso la sua storia e i suoi pensieri.

Eccovi la sua chiacchierata integrale (che potete seguire con i sottotitoli e la trascrizione in italiano, disponibili grazie al progetto TED Translators, a cui sono liberamente ispirate le citazioni di questo post).

Buon ascolto.

 

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